Raggiunta una milestone nel PNRR? Il “nuovo” ordinamento dei servizi pubblici locali a rilevanza economica, di Maria Bianca Armiento

Abstract (ENG): With Legislative Decree No. 201/2022, the Government regulated local services of general economic interests. This long-awaited reform is one of the milestones within the National Recovery and Resilience Plan (NRRP). The aim of this paper is to analyse its most significant aspects, at the same time highlighting its criticalities.
Abstract (ITA): Con il d.lgs. 201/2022, il legislatore ha provveduto a disciplinare la complessa materia dei servizi pubblici economici di rilevanza economica. La riforma – attesa da molti anni – si pone come una delle milestone del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Il presente contributo ne analizza gli aspetti più significativi, mettendone in luce i profili problematici.


La disciplina dei servizi pubblici locali appare tradizionalmente una delle più complesse. Molteplici sono le criticità ad essi associate: la difficoltà di individuare quali siano in concreto i servizi pubblici (operazione che invece è stata fatta in altri ordinamenti come, ad esempio il Portogallo), la predominanza dell’intervento pubblico unita alla scarsa applicazione delle regole concorrenziali, il potenziale conflitto tra disciplina generale e disciplina di settore, il grado di efficienza/funzionamento del servizio e la difficoltà di approntare tutele effettive per il cittadino-utente.

Negli anni, non sono mancati alcuni tentativi di riordinare la materia: a tal proposito, si può citare lo schema di decreto legislativo recante testo unico sui servizi pubblici locale di interesse economico generale del 2016, che avrebbe dovuto attuare una delle delega contenute nella c.d. “Legge Madia”. Come noto, tuttavia, il testo non è mai stato adottato, anche alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 251/2016 che ha dichiarato parzialmente illegittima la Legge Madia (compresa la delega in materia di servizi pubblici locali, nella parte in cui non era previsto che i decreti attuativi fossero adottati in sede di Conferenza Stato-Regioni) e della successiva caduta del Governo Renzi. Ciò ha contribuito ad aggravare il vuoto normativo e l’incertezza sulla normativa applicabile a seguito del referendum del 2011.

Non appare dunque casuale che la legge annuale per il mercato e la concorrenza 2021 contenga all’art. 8 proprio una delega relativa alla disciplina dei servizi pubblici locali. La riforma si pone come una delle milestone del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). A tal fine, nel maggio 2022, è stato costituito presso il Segretariato Generale della Presidenza del Consiglio dei Ministri un Gruppo di lavoro composto da esperti e presieduto dal Prof. Giuseppe Caia, al fine di individuare e disciplinare le principali problematiche ancora aperte in tema. Suddette problematiche sono state altresì discusse nell’ambito di un ciclo di seminari tenuti presso Scuola sull’amministrazione pubblica (SPISA) di Bologna.

Le risultanze del lavoro sono confluite nel recentissimo d.lgs. 23 dicembre 2022, n. 201. Il testo normativo, che ha ad oggetto «la disciplina generale dei servizi di interesse economico generale prestati a livello locale» (art. 1), fa riferimento ai principi a cui la disciplina dovrebbe essere informata, che includono «concorrenza, sussidiarietà, anche orizzontale, efficienza nella gestione, efficacia nella soddisfazione dei bisogni dei cittadini, sviluppo sostenibile, produzione di servizi quantitativamente e qualitativamente adeguati, applicazione di tariffe orientate a costi efficienti, promozione di investimenti in innovazione tecnologica, proporzionalità e adeguatezza della durata, trasparenza sulle scelte compiute dalle amministrazioni e sui risultati delle gestioni», nonché il principio di «centralità del cittadino e dell’utente» (art. 3).

Il richiamo a questi principi appare certamente significativo: essi fanno infatti trasparire un nuovo ordinamento dei servizi pubblici locali a rilevanza economica più “moderno”, rispettoso delle esigenze della twin transition (come testimonia il rinvio ai principi di sviluppo sostenibile e di innovazione tecnologica), della concorrenza e del cittadino-utente.

Ma è davvero così? Nello specifico, non tutti i principi trovano attuazione nel decreto: vi sono infatti alcuni profili che meritano riflessione, anche per l’impatto che potrebbero avere sugli utenti.

Separazione tra regolazione e gestione. In primo luogo, il decreto appare in grado di superare una delle criticità connessa ai servizi pubblici, vale a dire quella che è stata definita “commistione” tra regolazione e gestione. Di particolare rilievo, infatti, è il principio di separazione tra gestione e regolazione, espressamente sancito dal testo. Il principio viene attuato principalmente mediante il divieto agli enti di governo dell’ambito o alle autorità di regolazione di partecipare direttamente o indirettamente ai soggetti incaricati della gestione del servizio (art. 6).

Sussidiarietà. Può inoltre evidenziarsi l’accento posto sul principio di sussidiarietà orizzontale di cui all’art. 118, comma 4, Cost., in base al quale «Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà». È in particolare   previsto che gli enti «favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, e delle imprese, anche con apposite agevolazioni e semplificazioni» (art. 10). Questa disposizione, che però non viene ulteriormente specificata, permetterebbe di incentivare l’iniziativa dei privati nella gestione dei servizi pubblici.

Reti e impianti necessari alla prestazione del servizio. Non mancano norme che destano qualche perplessità, soprattutto in termini di rispetto del principio di concorrenza, richiamato, come evidenziato, dallo stesso decreto. In particolare, il decreto dispone che gli enti locali individuino reti, impianti e dotazioni «in sede di affidamento della gestione del servizio ovvero in sede di affidamento della gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni, qualora questa sia separata dalla gestione del servizio» (art. 21, corsivo aggiunto). Seppure sia molto opportunamente vietata la cessione della proprietà per l’intero periodo di utilizzabilità del bene, a prescindere dal regime optato, il decreto è “deludente” sotto il profilo della tutela della concorrenza nella misura in cui ammette la separazione tra gestione di reti/impianti da quella del servizio unicamente come “possibilità”. Dal momento che si tratta di un criterio fondamentale per evitare alterazioni della concorrenza, sarebbe stato più opportuno imporre un obbligo di separazione tout court.

Forme di gestione. Le medesime preoccupazioni in termini di rispetto dei principi concorrenziali emergono nell’analizzare le previsioni in materia di gestione, comprensive della disciplina della durata dell’affidamento, dei rapporti di partenariato con gli enti del terzo settore e delle clausole sociali (artt. 14-20). Il disegno di legge, infatti, individuava tra i criteri che avrebbero dovuto informare il futuro decreto l’obbligo di trasmettere di trasmettere tempestivamente all’AGCM la decisione di fare ricorso all’in house, chiamata a rendere un parere obbligatorio. Questo obbligo è venuto meno in fase di approvazione definitiva della legge sulla concorrenza, estromettendo dunque del tutto l’autorità antitrust, che, in questo modo, potrà unicamente limitarsi ad esperire i tradizionali strumenti di advocacy previsti dalla legge n. 287/1990.

Sul punto, il decreto infatti individua e mette sullo stesso piano il confronto concorrenziale, l’affidamento a società mista e l’affidamento in house.

È evidente un netto passo indietro non solo rispetto al disegno di legge originario, ma anche a quanto previsto dallo schema del 2016, che prevedeva il parere obbligatorio dell’autorità antitrust in caso di affidamento in house, che manca nel decreto approvato (e, come evidenziato, rimosso anche dalla legge sulla concorrenza). Se da un lato, questa nuova previsione appare giustificata dal rispetto del principio di libera amministrazione, dall’altro, pone degli interrogativi rispetto alla compatibilità con quello di libera concorrenza, richiamato non solo dallo stesso decreto, ma anche dalla delega, tra i criteri che informano l’individuazione delle attività di interesse generale che soddisfano i bisogni della collettività. Per come è formulata, la previsione lascia la scelta all’ente locale, tenuto semplicemente a motivare con riferimento ad alcuni aspetti, quali le caratteristiche tecniche ed economici del servizio (compresi i profili relativi alla qualità del servizio), oppure la situazione delle finanze pubbliche, dei costi e dei risultati prevedibilmente attesi in relazione alle diverse alternative ecc.

Ciò comporta pertanto un’amplissima discrezionalità in capo all’ente indicando criteri a loro volta amplissimi come la “qualità” e i “risultati attesi”. Vi è il rischio concreto che la totale equiparazione tra le forme di gestione porti di fatto ad escludere del tutto il ricorso alla gara, in favore degli affidamenti diretti.

Rapporto tra ente locale e gestore. Il decreto disciplina in modo puntuale il contratto di servizio (art. 24), indicando clausole “minime” che questo deve necessariamente contenere (tra le molte, il regime giuridico prescelto, gli obblighi di servizio pubblico, le modalità di risoluzione delle controversie con gli utenti). È poi specificato che gli enti locali esercitano la vigilanza sulla gestione: nello specifico, vi è obbligo da parte del gestore di mettere a disposizione dell’ente dati/informazioni relativi all’assolvimento degli obblighi contenuti nel contratto di servizio (art. 28). Un’apposita previsione è poi dedicata alla trasparenza (art. 31): è infatti sancita la pubblicazione sul sito dell’ente e su quello dell’ANAC degli atti relativi all’affidamento e del contratto di servizio. Siffatta previsione sembra soddisfare un’esigenza unicamente “formale” di trasparenza: gli utenti dei servizi sono interessati ai dati sulla qualità del servizio, sull’osservanza degli OSP, sui ritardi, sul numero dei reclami, il tutto espresso in modo intellegibile ai più.

Rapporto d’utenza. Vi è un ulteriore profilo che avrebbe poi meritato una diversa cornice, vale a dire quello del rapporto d’utenza. Di pregio appare la previsione con cui vengono dettati criteri per determinare le tariffe. Queste sono informate alla correlazione tra costi efficienti e ricavi finalizzata al raggiungimento dell’equilibrio economico e finanziario della gestione, al rapporto equilibrato tra finanziamenti raccolti e capitale investito; alla valutazione dell’entità dei costi efficienti di gestione delle opere, tenendo conto anche degli investimenti e della qualità del servizio, nonché all’adeguatezza della remunerazione del capitale investito, coerente con le prevalenti condizioni di mercato (art. 26). Le medesime considerazioni possono formularsi per quella previsione, legata all’istituzione dei servizi pubblici, per cui l’ente locale, qualora non risulti necessaria l’istituzione di un servizio pubblico, promuove le iniziative per assicurare un adeguato soddisfacimento dei bisogni degli utenti, come vantaggi economici, titoli o agevolazioni (art. 11).

Tuttavia, restano irrisolti nodi fondamentali. Si pensi, ad esempio, a quello delle carte di servizio, spesso considerate come una delle massime espressioni del rapporto d’utenza. Relativamente a queste, il decreto si limita a sancire un obbligo di pubblicità (art. 25), mentre è del tutto carente la parte relativa ai principi e alle tutele che le carte dovrebbero contenere. Sotto il profilo dei principi, si può rilevare come emergano infatti oggi principi nuovi rispetto a quelli contemplati dalla Direttiva della PCM del 1994: si pensi, ad esempio, ai principi, peraltro richiamati dal decreto in commento, di sviluppo sostenibile e promozione di investimenti in innovazione tecnologica, che necessiterebbero di una disciplina attuativa. Un discorso non dissimile può farsi per le tutele. Anche sotto questo profilo, il decreto lascia spazi aperti, dal momento che si limita a prevedere per il cittadino-utente la possibilità di promuovere la risoluzione extragiudiziale delle controversie con le modalità previste dal Codice del Consumo, come, ad esempio, le procedure ADR (art. 29). Sotto tale profilo, questa previsione appare deludente: bisogna chiedersi se non fosse opportuno, alla luce dell’importanza e della “specificità” del servizio pubblico locale, riordinare e sistematizzare nel decreto anche i meccanismi di tutela per il cittadino-utente (si pensi ai reclami o alle segnalazioni). Questo, alla luce del fatto che l’utente del servizio pubblico potrebbe non essere assimilabile a un mero “consumatore”.

Digitalizzazione. Nel nuovo decreto, un’ulteriore occasione mancata è costituita dalla digitalizzazione dei servizi pubblici locali. In ogni caso, bisogna rilevare come la disciplina verrà interessata dalla futura adozione del Regolamento europeo “Legge sull’intelligenza artificiale”, che classifica la gestione dei servizi pubblici a rete mediante strumenti di intelligenza artificiale ad alto rischio e dunque destinatari di regole ben più stringenti. Ciò premesso, seppur in modo timido, appaiono nel decreto i primi riferimenti a questa dimensione. Si pensi, alla previsione che impone di inserire nel contratto di servizio clausole relative all’«obbligo del gestore di rendere disponibili all’ente affidante i dati acquisiti e generati nella fornitura dei servizi agli utenti, ai sensi dell’articolo 50-quater del decreto legislativo 7 marzo 2005 n. 82», come già previsto dal Codice dell’amministrazione digitale. Ciò consentirà all’ente locale di conoscere diversi aspetti del servizio, che potrebbero essere utilizzati per migliorarne la qualità e rendere informazioni in tempo reale agli utenti. Tuttavia, queste previsioni non sembrano attuare del tutto quel principio di “promozione di investimenti in innovazione tecnologica” richiamato dall’art. 1 del decreto.

Su questo punto, il decreto avrebbe potuto osare di più. Anche guardando alle esperienze straniere, emerge come il ricorso a strumenti digitali (che vanno dall’utilizzo di algoritmi “lineari” a forme più o meno avanzate di intelligenza artificiale che elaborano i dati relativi al servizio) stia caratterizzando sempre di più la gestione del servizio pubblico locale. Per limitarsi ad alcuni esempi, si può richiamare l’esperienza portoghese, in cui la società pubblica concessionaria della gestione del servizio idrico ha sviluppato un sistema intelligente che permette di analizzare i dati relativi al flusso e alla pressione dell’acqua, intervenendo in tempo reale laddove si verifichino perdite. Ancora, si pensi alla distribuzione dell’energia elettrica in Germania, affidata a un sistema intelligente “smart grid”, che permette, in caso di sovraccarichi, di “imporre” determinate quote di consumo alle abitazioni.

In definitiva, il nuovo decreto va certamente accolto con favore, avendo come obiettivo quello di colmare il vuoto normativo derivante dall’esito del referendum del 2011. D’altra parte, rappresenta un’occasione mancata di innovare davvero i servizi pubblici locali a rilevanza economica. In concreto, comunque, resta da verificare in che modo le amministrazioni daranno attuazione alla normativa, rispettandone i principi e lo spirito.


Maria Bianca Armiento
(m.armiento1@lumsa.it)

Research fellow in Administrative Law and an adjunct professor in "Economic law"
and "Big Data and Digital Ecosystem" (module on the regulation of AI) at LUMSA University.